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David Bowie Heathen  Cover
Artist: David Bowie
Location: U.K.
Album: Heathen
Label & Pubblication Year: Columbia, 2002
Tracklist: Sunday / Cactus / Slip Away / Slow Burn / Afraid / I've Been Waiting For You / I Would Be Your Slave / I Took A Trip On A Gemini Spaceship / 5:15 The Angels Have Gone / Everyone Says "Hi" / A Better Future / Heathen (The Rays)
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Il ritorno sulle scene del Duca Bianco per eccellenza è senz’altro stato uno dei più importanti eventi musicali degli ultimi mesi, tuttavia prima di fornirvene un approfondito resoconto ho preferito aspettare un tantino. Magari vi chiederete il perchè di questa scelta (o magari non ve ne frega nulla, in ogni caso sono tenuto a darvi una spiegazione), ed è presto detto: “Heathen” non è un disco facilissimo. Lampante il fatto che ancora una volta il Duca ci abbia giocato uno dei suoi consueti scherzetti, ma d’altronde nessuno era capace di prevedere come avrebbe suonato quest’album, dopo che in passato Bowie ci ha regalato esattamente ciò che nessuno si aspettava (vedi ad esempio “Earthlings”, riuscito esperimento sonoro nel quale esplorava in lungo e in largo le ultime tendenze, dall’elettronica al Jungle). L’egregio Mr. Jones (questo, per chi non lo sapesse, il cognome di Bowie all’anagrafe) stavolta si lascia alle spalle gli estremismi di quel tipo di sperimentazione, ma non per questo finisce col regalarci la classica minestra insipida che ci si può aspettare da un artista dato da più parti per finito. Piuttosto ci troviamo di fronte ad un bello schiaffo morale per replicare a tutti i serpenti che l’hanno criticato negli ultimi anni. Ha ribadito di essere ancora in una forma smagliante, uscendo sul mercato con un disco rock moderno, dalla produzione ineccepibile (e dietro il banco c’è da segnalare il ritorno del guru Tony Visconti), che riesce a fare sì uso di samples ed altre finezze tecnologiche, bilanciando però il tutto con un altrettanto raffinato utilizzo degli strumenti “classici”, giusto per ricordarci da dov’è che viene il rock n’roll. “Sunday” ci introduce al disco in maniera abbastanza rilassata, mentre songs come “Afraid”, “I Would Be Your Slave” e “I Took A Trip On A Gemini Spaceship” ci mostrano il lato più modernista di questo nuovo Bowie, ponendolo, come si diceva, in un contesto che partendo dal rock classico abbraccia piacevolmente sonorità più “sintetiche”. “Cactus”, cover dei Pixies, è invece uno di quegli episodi a presa rapida, dal ritornello facilmente memorizzabile, ma che coi suoi 3 minuti scarsi di durata finisce proprio sul più bello, quando ormai eravamo pronti ad esplodere anche noi con l’ennesimo refrain, ma d’altronde con uno come lui dobbiamo essere pronti a tutto. E non abbiamo parlato ancora degli episodi più clamorosi del disco, in pratica quando il buon David finalmente torna a dare uno sguardo al suo glorioso passato, facendo riaffiorare in un suo lavoro, cosa che da tempo immemore non accadeva in maniera così esplicita, chiare influenze del suo periodo Glam, non tanto visivamente, quanto musicalmente. Non si tratta naturalmente di semplice rivisitazione, da lui ci si aspetta ben altro, e così è: canzoni come “Slip Away”, “Slow Burn” ed “Everyone Says Hi” attingono a piene mani dal repertorio malinconico/decadente dei primi seventies, naturalmente rileggendo il tutto in un’ottica fresca ed attuale che non può far altro che entusiasmarci. Chiudono il disco altri due episodi notevolmente particolari, vale a dire “A Better Future”, song molto ancorata agli stilemi degli anni ottanta, tanto che in alcuni punti sembra quasi di ascoltare qualcosa dei Cure, e la title-track, che se vogliamo si propone come l’episodio più sperimentale e difficilmente catalogabile del lotto. Alla fine possiamo sicuramente affermare che un tipo come lui non aveva più nulla da dimostrare a nessuno, anzi, ciò che ha fatto negli anni passati è valso più di mille parole a riguardo, quindi poteva benissimo ignorare tutto e tutti campando di sola rendita. tuttavia, fintanto che la sua verve artistica gode della tanto invidiata capacità di reinventarsi rimanendo fedele ad una linea, restando così fresca ed inattaccabile dalle rughe del tempo, a noi non resta che inchinarci al cospetto del Duca Bianco, l’ultimo vero nobile del rock n’roll.

Recensione Realizzata da Tony Aramini.
Vote: 7,5