The Ark Official Website
The Ark In Lust We Trust Cover
Artist: The Ark
Location: Rottne, Sweden
Line-up: Ola Salo (vocals), Jepson (guitar), Sylvester Schlegel (drums), Leari (bass), Martin Axén (guitar)
Album:

In Lust We Trust

Label & Pubblication Year: Virgin, 26-08-2002
Tracklist: Beauty Is The Beast / Father Of A Son / Tell Me This Night Is Over / Calleth You Cometh I / A Virgin Like You / Interlude / Tired Of Being An Object / Disease / Vendelay / 2000 Liight Years Of Darkness / Tje Most Radical Thing To Do
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Potrei stare a parlare per ore del perché e del percome questo come-back dei The Ark ha insinuato più di un dubbio nella mia testa, ma alla fine ci troveremmo sempre al punto di partenza, visto che si tratta di un disco che al primo ascolto sicuramente spiazza un po’ l’ascoltatore. Ovvio che non si sono messi a suonare Death Metal, ma certo è che hanno puntato su suoni che non rappresentano esattamente il massimo della commerciabilità. Mi spiego meglio: le influenze dell’hard rock anni ’70 si sono fatte molto più marcate (specialmente i Queen prima maniera), per di più la maggior parte dei brani qui proposti sembrano essere stati per davvero incisi nel 1972, epoca d’oro del glam rock inglese. Mi riferisco non solamente alla struttura delle varie composizioni, bensì anche ad alcune scelte di produzione che, per quanto possano essere volute, finiscono col risultare indigeste, per lo meno al sottoscritto. Si tratta di un semplice parere personale, che pregiudica in parte il mio giudizio finale sul disco, e rafforza l’idea che ci troviamo al cospetto di un lavoro di buona fattura, che però avrebbe potuto suonare sicuramente meglio. Giocare con sonorità retrò senza risultare noiosi è alquanto difficile, ma se fatto per bene può essere cosa altamente piacevole (vedi The Strokes, che vanno a recuperare suoni vecchi di quasi 35 anni senza farti sbadigliare nemmeno mezza volta), ed è questa è la più grande colpa che mi sento di scaricare sui The Ark. Ho amato il loro debut album per il suo saper rileggere in chiave attuale le influenze scintillanti del glam rock, per il suo gusto melodico e per la malinconia di alcuni pezzi… Cosa è rimasto di quella band ? Non più di un paio di canzoni. “Disease” è la mia preferita, trattasi infatti del primo momento dell’album dove per una volta le atmosfere seventies vengono filtrate attraverso sonorità più moderne, riprendendo il discorso iniziato in diversi episodi del precedente album. Sulla stessa scia “2000 light years of darkness” e “The most radical thing to do”, che partendo sempre dal 1972, finiscono col farsi abbracciare piacevolmente da squarci di rock più recente. “A virgin like you” e “Vendelay” sono due pezzi influenzati in maniera quasi scandalosa dal primo David Bowie(ascoltate gli handclap della seconda!), nonostante ciò si lasciano ascoltare in maniera abbastanza piacevole. Per il resto ci troviamo di fronte a tanto, datato, glam hard rock tipicamente anni settanta, che magari può anche piacere, ma alla fine non mi soddisfa appieno. Non è una vera e propria stroncatura: fosse stato prodotto con suoni più aggiornati, avrei replicato con molto piacere la più che positiva recensione dell’esordio di un anno fa. Li attendo al varco, sperando vivamente un loro ritorno in carreggiata.

Recensione realizzata da Tony Aramini.
Vote: 6,5